[di profeti e di patrie]

(Pensavo di aver riportato su questo blog tutto il contenuto delle mie “case” che furono, su splinder.  Invece no. Cercando altro ho trovato questo.)

Csontváry Kosztka Tivadar, Il giovane pittore (1898)

Csontváry (1853-1919) faceva il farmacista, di mestiere. Poi ha studiato pittura, anche in Germania e a Parigi, con i maestri ungheresi più noti dell’epoca. Per (nostra) fortuna, ha poco assorbito di tutte le “scienze” che avrebbero potuto renderlo un coccolato pittore da salotto buono.
Ha viaggiato tanto – sulla costa dalmata dell’Adriatico, in Italia, in Grecia, in Palestina, in Egitto… – e dipingeva panorami “da sogno” di enormi dimensioni.

Da nessuna parte comprendevano la sua arte, l’unica “patria” in cui si ritrovava era quella da lui dipinta. La pittura “colta” lo snobbava un po’, la gente comune dell’inizio secolo aveva tutt’altri modelli di bellezza.

Quando le sue mostre a Parigi vengono elogiate dai più grandi critici, in Ungheria nei suoi quadri “visionari” si leggono i sintomi della sua “psicopatologia”. Perché lui “si atteggiava da profeta”. Non stava nella corrente montante nazional-sciovinista, non aveva molto da spartire con la sparuta avanguardia (o “guardia”) resistente-oppositrice. Ché lui era uno che… vedeva. Era persona “eccentrica”; astemio, quasi del tutto vegetariano e – quel che è peggio – pure pacifista.

Negli ultimi anni scriveva soltanto; la sua è una scrittura filosofico-autobiografica extra-ordinaria come le sue tele. In proposito annoterà il curatore postumo dei suoi testi: «In fondo, amiamo le leggende non perché sono vere ma perché sono – belle.»

Per Il giovane pittore si fa spesso riferimento alla “mitologica” pastorella greca che disegna il suo amato nella sabbia. Si sa che il quadro (piccolino, 38,5 x 29 cm) fu dipinto a Napoli.

Ho cominciato a scrivere di Csontváry e di questo quadro perché volevo dire perché mi è caro. Ma, in fondo, che importanza ha?

( 22 maggio 2007)

Un vuoto non dimenticabile

[…] mentre nei giorni scorsi “mettevo in salvo” (mettevo in valigia) le ultime carte recuperate da mia sorella tra le macerie di una casa che per tre generazioni doveva significare anche famiglia, mi sono ricordata di un libro particolare: Arlette Farge racconta la sua ricerca nell’archivio giudiziario parigino, tra le carte dei processi del XVIII secolo, scrivendo non (sol)tanto un capitolo (una versione?) di storia sociale dell’epoca ma anche una cronistoria sensazionale della ricerca in un archivio. Sensazionale, in tutti sensi, appunto; trasmette le sensazioni e le emozioni che sommergono chi mette le mani tra “vecchie carte”.
Dicevo, a proposito del “tempo ordinatore”, del legame tra un documento e l’altro che è Il Creatore dell’archivio dove – come tra i ricordi – noi cerchiamo di leggere le prove accumulate della nostra o altrui esistenza. Ma la Farge avverte:
«L’archivio non è uno stock nel quale si possa attingere a piacere; è invece costantemente un’assenza. Un’assenza che riporta alla definizione della conoscenza di Michel de Certeau: “Ciò che non cessa di modificarsi per mezzo di un vuoto non dimenticabile”. I pacchi di denunce possono essere migliaia, le parole da raccogliere possono sembrare infinite e però ciò che manca, paradossalmente, oppone la propria enigmatica presenza all’abbondanza dei documenti.»
«…Il piacere dell’archivio è… un vagare attorno alle parole altrui, la ricerca di un linguaggio che ne salvi le caratteristiche. È forse anche un vagare tra le parole di oggi, una convinzione magari poco ragionevole che la storia si scriva non per raccontarla, ma per articolare in parole un passato morto e produrre “lo scambio tra vivi”. Per infilarsi in un discorso interminabile sull’uomo e sull’oblio, l’origine e la morte. Sulle parole che traducono il coinvolgimento di ciascuno nel dibattito sociale.»
Arlette Farge, Il piacere dell’archivio, Essedue ed., 1991
(Incontri di OraSesta, 24 febbraio 2008)

Tempo ordinatore

[…]

Ho passato le ultime settimane a riguardare, selezionare, ritagliare, “ottimizzare”… poi (in tanti casi) scartare le fotografie scattate con la macchinetta digitale che mi è stata regalata nell’aprile 2005. Quelle “private”; le altre migliaia degli eventi pubblici hanno già fatto la loro “storia”.
Ora basta.
Ne ho “incollate” più di duecento in un “album“, in ordine cronologico, e a lavoro terminato mi sto ancora domandando che senso abbia (avuto) questo frenetico rovistare, come sospinta da un senso di urgenza, di necessità.
Che senso ha affidarsi al (presunto) potere ordinatore del tempo. Un’immagine presa come una maglia della catena, sostenuta da quelle che la prendono (che prende) a braccetto.
Che senso ha affidare soggetti oggetti e predicati di un “racconto” a colori e forme non meno falsate (falsanti) di quanto possano fare – di “vero” e di “falso” – le parole.
Scriviamo riscriviamo la nostra storia in parole e talvolta in immagini: ma cosa sono, le parole, se non immagini con/solidate in pietre levigate poi dall’acqua o dal vento, nel corso del tempo.
«Scriviamo e riscriviamo – talvolta fino all’ossessione? – la “nostra storia” fino a che non troviamo la forma/formula pacificatrice, né ingannevole né auto/lesiva. Alla ricerca del senso, compiuto.»
Riguardo le fotografie di questi ultimi anni e osservo come mi sono “appassionata” alle immagini dai treni in corsa. Al “trucco” di far sembrare ferme le immagini – o meglio: le cose – in movimento. O meglio ancora: far sembrare un punto fermo il punto di osservazione in movimento. È un gioco con le distanze. È un gioco che postula l’esistenza di una distanza giusta, di un’angolazione adatta, per poter vedere fermo ciò che la realtà ci offre inevitabilmente mosso.
Osservo come mi sono “appassionata” alle immagini riflesse, al “doppio gioco” della fotografia, al rovistare nel “doppio fondo” dove il cuore nasconde dell’immagine il verso sottratto alla vista.
(Incontri di OraSesta, 2 febbraio 2008)

Colonne sonore

A proposito del brano “Nun ti lassu” T. scrive:
«… Funziona così, caro Maestro. È così che nasce la colonna sonora della vita e dell’amore di noi comuni mortali. Con appropriazione indebita. Con i prestiti. Per questo che ci piacciono certe canzoni. Perché dicono le nostre parole, quelle che vorremmo sentir rivolgere a noi, quelle che sentiamo che saremmo capaci di dire anche noi. Parole semplici perché siamo persone semplici. E perché, in fondo, l’amore è un sentimento molto semplice. Più la vita lo complica, con più testardaggine ripetiamo le semplici parole delle nostre canzoni. E potrà arrivare un poeta ad inchiodarci con l’imperativo di non chiamarlo amore perché è degno del suo nome, ma noi scapperemo e grideremo “tana” ricominciando a canticchiare una di quelle canzoni dove amore fa sempre la solita rima e non ci chiede di “nominare” e ci culla in qualcosa di universale dove immaginarci nominati…»
(Dal sito di Carlo Muratori – 10 agosto 2003, Incontri di OraSesta, 7 novembre 2007)

Del congiuntivo nominale

“Ma questa è impazzita…” Non del tutto, no.
Ora racconto una cosa, non arrabbiarti (troppo), Massimo. Giorno più giorno meno, è un anno che ci conosciamo. Avevo scoperto il tuo “diario plastico“ grazie ad una segnalazione – forse sugli “Appunti” di Remo? [ho controllato, proprio lì, e guarda te che coincidenze…] – e fu… “amore a prima lettura”. Facendo uno dei rari strappi alle “mie regole”, scrissi una specie di recensione per “Girodivite”, ma non è questo il punto.
Voglio ricordare ora il tuo imbarazzato messaggio: scusami – anzi, avrai scritto “abbi pazienza…” – ma è nel tuo interesse; hai sbagliato il tempo di un congiuntivo, ti conviene correggere. Ed è qui che ho cominciato ad accumulare il mio debito con te e soltanto andare a pari non so se avrò tempo sufficiente… ma non è nemmeno questo, il punto.
Eggià. Mi picco di scrivere chissacosa, ma i tempi dei congiuntivi (i tempi dei verbi, in generale) li sbaglio. Dopo venticinque anni, mi capita ancora di essere “scoperta” come straniera attraverso un banale errore di grammatica. In generale l’aspettativa degli interlocutori nei miei confronti è quella che avrebbero nei confronti di un qualsiasi quasicinquantenne italiano di media cultura (quando sono fortunata, dico). Arrivando a domande come “ti ricordi quella canzone di…” e avanti con l’hit parade anni ‘70, quando eravamo giovani giovani sì, ma io da tutt’altra parte, ascoltando tutt’altra musica, e mandando a memoria tutt’altre poesie.
Dietro un – sostanzialmente – appropriato uso della lingua (del linguaggio) si dà per scontata la sostanziale condivisione di una cultura. Ma l’assimilazione della lingua e della cultura (di un tempo storico) appartengono allo stesso metabolismo però non sono lo stesso processo. (Almeno credo.)
Eppure.
Correggendomi l’ennesimo errore di tempo-di-congiuntivo, ieri mi hai fatto ricordare un episodio di qualche giorno fa. Si parlava tra colleghe (quasi)cinquantenni, s’affacciavano ricordi d’infanzia. Io zitta. Tanto, i miei ricordi di caffelatte sono lontani non soltanto nel tempo ma anche nello spazio. Quel bricco di alluminio sopra la stufa di ceramica, e il profumo di quel caffè-noncaffè (‘cikóriakávé’) con il deposito in fondo a farlo somigliare – lo so ora – al caffè turco…
Poi una delle colleghe racconta della cuccuma di quand’era bambina, appoggiata perennemente sulla brace del “forno” laterale del camino. E del fondo nero che una volta, da piccolissima, aveva bevuto/mangiato.
E l’altra risponde: la cuccuma era già roba da sciùur, a casa mia gh’èera el pügnatin per far bollire l’acqua del caffè, “la cicoria”, il caffè d’orzo; la miscela Leone, te la ricordi? poi quei dadoni duri e scuri per farlo sembrare “più caffè”… – la disìia, all’amica.
Sì, mi ricordo, potevo rispondere anch’io.
Grazie al cielo, il congiuntivo nominale – quello che unisce “in nome delle cose” – a volte mi fa sentire meno straniera.
(Incontri di OraSesta, 23 novembre 2007)

Nominare

[…] S’inizia a parlare nominando. Poi arriva anche il tempo dei verbi – il primo forse è proprio “voglio” -, ma “in principio fu” – il nome.
Le lingue adottano strategie diverse. Una lingua “pellerossa” ha un’infinità di parole per dire ‘lepre’, definendola nelle sue varie “manifestazioni”; la lepre che corre, la lepre nascosta…
Molte lingue non osano dare nome a ciò che temono. La parola che oggi nella mia lingua indica il lupo, alle origini non era un nome, era una “descrizione”: l’animale con la coda, ‘farkas’.
Per dire ‘lepre nella tana a calmare il batticuore della corsa alla salvezza’ bastava un disegno iscritto nella terra, un odore già lontano, un guizzo negli occhi del cacciatore.
Con i nomi, con le definizioni, si tenta di ridisegnare la carta geografica del mondo veduto, ad uso delle nostre certezze – ad uso del nostro desiderio di certezze.
Io, te, voglio, amo, ieri, domani, qui, ovunque.
(Incontri di OraSesta, 22 novembre 2007)