(Pensavo di aver riportato su questo blog tutto il contenuto delle mie “case” che furono, su splinder. Invece no. Cercando altro ho trovato questo.)
Csontváry (1853-1919) faceva il farmacista, di mestiere. Poi ha studiato pittura, anche in Germania e a Parigi, con i maestri ungheresi più noti dell’epoca. Per (nostra) fortuna, ha poco assorbito di tutte le “scienze” che avrebbero potuto renderlo un coccolato pittore da salotto buono.
Ha viaggiato tanto – sulla costa dalmata dell’Adriatico, in Italia, in Grecia, in Palestina, in Egitto… – e dipingeva panorami “da sogno” di enormi dimensioni.
Da nessuna parte comprendevano la sua arte, l’unica “patria” in cui si ritrovava era quella da lui dipinta. La pittura “colta” lo snobbava un po’, la gente comune dell’inizio secolo aveva tutt’altri modelli di bellezza.
Quando le sue mostre a Parigi vengono elogiate dai più grandi critici, in Ungheria nei suoi quadri “visionari” si leggono i sintomi della sua “psicopatologia”. Perché lui “si atteggiava da profeta”. Non stava nella corrente montante nazional-sciovinista, non aveva molto da spartire con la sparuta avanguardia (o “guardia”) resistente-oppositrice. Ché lui era uno che… vedeva. Era persona “eccentrica”; astemio, quasi del tutto vegetariano e – quel che è peggio – pure pacifista.
Negli ultimi anni scriveva soltanto; la sua è una scrittura filosofico-autobiografica extra-ordinaria come le sue tele. In proposito annoterà il curatore postumo dei suoi testi: «In fondo, amiamo le leggende non perché sono vere ma perché sono – belle.»
Per Il giovane pittore si fa spesso riferimento alla “mitologica” pastorella greca che disegna il suo amato nella sabbia. Si sa che il quadro (piccolino, 38,5 x 29 cm) fu dipinto a Napoli.
Ho cominciato a scrivere di Csontváry e di questo quadro perché volevo dire perché mi è caro. Ma, in fondo, che importanza ha?
( 22 maggio 2007)