[il tempo necessario]


Il rancido della sua camera. Barando potrei dire che il ricordo che più frequentemente mi assale è quello di un odore di putrefazione ma così lo definisco solo ora, o meglio da quando ne ho conosciuto la causa e la conseguente fine. Lo dico subito, la fine della storia è che mia madre muore. Ma, pensando ai vicini di casa dei morti ammazzati che davanti alle telecamere allargano le braccia per radunare qualche ricordo fuggente di chi, fino a quel momento, non aveva una storia ma una vita, devo dire che la storia di mia madre comincia il giorno che morì. Passato remoto, eggià.
Me la sono raccontata tante volte, quella storia. Aggiungi qui e togli di là, ora ha una forma che si adatta ai vuoti e agli angoli contundenti, miei, suoi, vai a capire dove passa il confine. Sto imparando a convivere non con la storia ma con l’idea che una madre – mia madre – possa affacciarsi alla memoria, immancabilmente, avvolta da un tanfo nauseabondo.
Un giorno glielo domandai. Si era fatta male al seno lavorando nell’orto, mi disse. Una brutta ferita che non voleva guarire. Niente medico, sapeva lei come curarsi. “Se lo dici a qualcuno, non ti rivolgo più la parola” – ecco, questa frase la ricordo, ricordo il tono e lo sguardo.
Non l’ho uccisa io, mi dico. Abbiamo piantato le ultime fragole, abbiamo fatto l’ultimo bucato. Poi è arrivato il tempo di mettere ordine tra fotografie e carte. Per ultime sono rimaste le parole, impacchettate in racconti senza fine. Era pronta, lei.
Ed era partita, infine, con la prima corriera del mattino, quella che per una vita vedeva passare sotto le finestre mentre appoggiava i cuscini all’aria. Al mare voleva andare, al mare la portai e la consegnai ad un colpo di aria salmastra. Sapeva di buono.

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Il tempo necessario

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